9 1/2

Per molto tempo ho continuato a pensare a quella sensazione. C’è un momento in cui tutto è sospeso, il professore cammina tra i banchi e tu vedi solo fogli, altri banchi, a stento i volti dei tuoi compagni, poi passa accanto a te e tu abbassi lo sguardo ma passa oltre, oltre quel quadrato di legno che è il tuo posto nel mondo. Ce ne sono almeno 25 infatti di posti nel mondo in quella classe e il tuo momento sembra non arrivare mai. Poi quasi senza farci caso lo vedi scivolare dritto su di te, il foglio del compito sembra cadere da una mano invisibile che te lo deposita davanti agli occhi con la grazia di una piuma che tocca il suolo. Trattieni il respiro mentre leggi il tuo voto, 9 1/2.

Quasi fisso, quel numero non cambia mai. Può abbassarsi ma mai salire. Ma tu ancora non lo sai.

Poi un giorno ti svegli che la scuola è finita e su quella piccola metà si posa un velo che la cancella per sempre.

Così pensavi anche quando hai messo piede per la prima volta a New York. Lasci che i frantumi del passato attaccati male ti feriscano il corpo coperto di schegge. Chiudi gli occhi, li riapri, ti vedi sola in una stanza straniera di una casa straniera di una città straniera di un paese straniero. Chiudi gli occhi e non li riapri. Ti trovi a navigare tra quei piccoli banchi, rivedi il tuo, vuoto. Vorresti solo sederti e gli occhi, non aprirli più.

Quanto sarebbe più facile? In quell’aula piena di gente, fra tutti i compagni e gli oggetti inerti dell’apprendimento, ti guarderei muovere tra la lavagna e la cattedra, oppure seduto dietro di essa seguirei le tue mani tracciare spazi abitati dai poeti. Da allora la mente e le parole di quelle persone di carta sono diventate il posto più sicuro al mondo. Da dietro quel banco avrei creato un vuoto nel mio cuore. Uno spazio entropico che brama materia per continuare a crescere. Avrei avuto bisogno di saperne sempre di più, di chiedere a te, chiedere ai libri, chiedere ai massimi esperti, e poi all’università, lontano, nel futuro, in più di una terra straniera. Sarei tornata tutti i pomeriggi nella mia stanza a piegare la testa sui libri e innamorarmi dell’eternità magica creata dalle parole di uomini vissuti un numero incalcolabile di anni lontano da me per poter pensare davvero che mi avrebbero cambiato la vita.

Quel banco l’avrei lasciato un giorno, tu ci avresti salutato a uno a uno sulla soglia della porta blu col cartello 5^B. Lì piangendo ti avrei abbracciato, tu mi avresti detto “Come? Piangi anche tu che puoi fare quello che vuoi?”. Cos’è che voglio? Alimentare quel buco nero? Riempire d’amore il vuoto che ne avrà bisogno sempre di più? Rendere gli altri fieri, orgogliosi di me? Stupirli? Tracciare quel solco così profondo che quando passano di là tutti se ne accorgono? Sì sì sì e sì. Colmare il vuoto di tutte le parole non dette, di tutta l’espressione libera non data alla mente, ai desideri, la fuga dalla cameretta per vedere com’è che funziona il mondo.

Oggi mi sveglio nella mia stanzetta nel Queens e senza pensarci mi ritrovo sulla R, poi Manhattan, Times Square. Attraverso la solita e mutante moltitudine di gente quasi con gli occhi chiusi pensando di star sbagliando tutto, quando una voce di donna mi scuote urlando “living the time of my life” e non posso fare a meno di sorridere.

Sulla 1 in direzione “Uptown and the Bronx” mi fermo a 116th, Columbia University, Harlem. Entro nel castello fatato del campus, una nota stonata in un quartiere che racconta un’altra storia, verso la classe dove aspetto che lei arrivi. Lei, la più grande dantista di questo paese, lei di cui leggendo i libri ho imparato ad amare l’intelligenza. Mentre la ascolto penso che in fondo a sedici anni non desideravo che questo. Indagare al microscopio la bellezza della poesia per non perderne neanche una molecola. Oggi da dietro questo banco, così diverso da quel mio posto nel mondo, sento bruciare qualcosa dentro come otto anni fa, ma con più compostezza. Il contenimento di qualcuno che ha perso qualcosa, che si è educato fin troppo.

Poi finalmente è il momento di tornare a casa. Salita in cima ai cinque piani di scale, aperta la porta, crollata sulla mia sedia, sento un enorme vuoto nel cuore in maniera improvvisa. Non ho nessuno con cui parlare. Nessuno con cui spezzare il pane quotidiano della giornata. Nessuno con cui fare una passeggiata nell’odore serale di una primavera ancora segreta. Nessuno sulla cui spalla poggiare la testa. Nessuno da abbracciare ai fornelli. Non una mano da stringere o qualcuno a cui tenderla. Nessuna carezza prima di dormire. Non un’amica con cui condividere il bracciolo della poltrona del primo cinema dietro l’angolo. Riempio allora le chat di sconnesse, evidenti, nascoste richieste di aiuto. Scrivendo così a chi non può rispondermi, lamento il momento in cui domani mattina aprirò gli occhi e troverò mille messaggi della parte sveglia di mondo. Cerco disperatamente quella sopraffazione.

Schiacciatemi col vostro affetto, con la vostra attenzione, scrivetemi, ditemi tutto, pensatemi. Cantatemi una canzone, riempitemi di racconti non richiesti della vostra vita, ditemi come state. Chiedetemi come sto. Ditemi poi che mi volete bene, fatevelo dire. Chiamatemi all’improvviso, mentre sono in metro e non prende. Mentre sto andando a lezione e non posso rispondervi. Lasciate che vi richiami. Mandatemi vocali pieni di pianto, lasciate che ve li mandi. E ditemelo che odiate la vostra vita, che vi manca tutto e ci pensate ogni giorno, a mollare e ricominciare da capo, a tornare indietro, ad andare avanti. Ascoltatemi mentre ve lo dico. Che desiderate così tanto conoscermi, che sono passati gli anni ma non ci siamo più incontrati, che abbiamo accumulato parole ma non sguardi negli occhi, non abbastanza. Concedetemi un piccolo spazio nelle vostre chat, nella vostra vita.

Scrivo questi messaggi e intanto guardo fuori dalla finestra. Le luci di questa città non si spengono mai. “Il parco giochi più grande del mondo” ho pensato la prima volta guardandoti attraverso questo vetro. Ci sono le mille luci dei grattacieli laggiù, le luci rosse a intermittenza dei ponti o quelle bianche che li vestono di ghirlande luminose agli angoli in cui si ergono i loro pilastri. Le luci degli aerei che incrociano le loro traiettorie a tutte le ore del giorno e della notte, stelle meccaniche nel tuo cielo senza stelle. Le luci dei fari della metro che attraversano i tuoi ponti, grandi serpenti sinuosi che muovono ferro come fosse seta. Vedo le luci dei semafori accendersi e spegnersi senza mai stancarsi degli stessi colori, quelle delle auto andare dietro ai loro scatti con altrettanta costanza. Infine le piccole lucerne delle finestre nelle case degli altri, tutte colorate, calde del calore dei corpi degli altri. Piene di ombre e sfumature, nascondono una vita inaccessibile e dolce, domestica, intima. Ogni tanto vi si intravede la sagoma di un gesto, una dispensa aperta, una libreria disordinata, il sussulto di una tenda al chiudersi della finestra o una mano che spegne con cura una lampada a fine giornata.

Io adesso spengo la mia, forse dall’altra parte non c’è nessuno a guardarmi, ma a me va bene così, mi basta che domani sia tutto nuovo, acerbo, umido e pieno di sbagli. Che la ricerca ricominci da capo, ancora una volta.

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