Viola

Sono già le sette, le otto, forse le nove di sera. Da una delle finestre della residenza vediamo D. affacciarsi rivolgendosi a noi: salite, è pronto! Guardo E., mi dice: prova l’ultima volta, poi saliamo. Lo osservo ancora per un momento prima di salire sullo skate. Porta una giacca di jeans che non gli avevo mai visto indossare nella cucina dove ci incontriamo quando lui torna dal lavoro in camicia e sfoggia un’aria sicura di sé.

La curva mi riesce discretamente, nel frattempo anche O. ci ha raggiunti nel vialetto fuori dalla residenza per chiamarci una seconda volta alla cena. Il sole è tramontato, ci dirigiamo verso l’ingresso e in un attimo ci ritroviamo davanti a una tavola apparecchiata dai nostri amici. Qualcuno ha già iniziato a bere, qualcun altro fa cadere ancora coriandolo su ogni piatto. La stanza mi sembra d’un tratto luminosissima, brillante dell’entusiasmo che ognuno di noi porta a cena con sé.  

E. mi sorride distrattamente e io guardando fuori dalla finestra ripenso all’aria viola che poco prima ci aveva avvolto nel vialetto davanti l’ingresso. In primavera c’è un momento in cui il pomeriggio è già alle spalle ma la sera non dilaga ancora e un velo sembra steso sulle cose, quando l’aria cambia odore e la sua freschezza rende inspiegabilmente malinconici. Quella è l’ora delle magie, l’ora nostalgica delle sirene o delle grandi delusioni che non ti spieghi il mattino seguente.

Era l’ora passata con E. ma anche quella nel cortile rosso da bambina, giocando con gli altri bambini che poco a poco venivano assorbiti dal crepuscolo e tu quasi non li vedevi più. L’ora estiva in cui le mamme si affacciano contemporaneamente dai loro balconi per urlare il nome dei figli ordinando loro di salire a casa per la cena, mentre tutto intorno i lampioni cominciano ad accendersi di luce artificiale non richiesta. L’ora più triste per ogni bambino, e quasi non ci si salutava neanche per non avere ad affrontare quella separazione, pur sapendo che l’indomani ci si sarebbe ritrovati tutti stesi sul rosso scolorito dello stesso cortile.

Adesso avere vent’anni voleva dire abitare quell’ora liberi da ogni delusione. La cena non era più il segnale respinto della separazione inevitabile, ma l’occasione di una festa, in cui ogni abitante della residenza si offriva di settimana in settimana di cucinare il piatto tipico del proprio paese per condividerlo con gli altri. L’interruzione del gioco era così diventata segno di unione, di scambio, uno scambio perpetuo che non faceva altro che spostarsi dal cortile alla cucina, dalla cucina al cortile. Ma avere vent’anni non mi aveva ancora insegnato come farmi scivolare di dosso quella nostalgia pervasiva, liquida, che ti costringe a sentire la mancanza di ciò che non hai ancora perso, incantesimo sinistro che quella sera mi teneva per mano.

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