L’acqua. L’ossessione dell’acqua.
Lei parlava di radici di case guscio sulle proprie spalle io ho pensato
quali sono le mie radici – che cosa sono – ce l’ho un guscio?
Le radici i rizomi mi piace immaginarli nell’acqua.
Non ingrovigliati dentro la terra a contorcere le zolle nel buio oscuro della vita che prima nascosta segreta poi si rivela per succhiare la luce.
Le radici nell’acqua. Le mie radici sono nell’acqua.
Tutte orizzontali non galleggiano,
vanno in fondo non dritte,
si espandono.
Sono tentacolari reticolari labirintiche caleidoscopiche.
Sono una trappola, sono strategiche.
Lui diceva non è importante orientarsi nei propri labirinti ma avere la capacità di arrampicarsi sulle loro mura per camminarci sopra. Guardarli dall’alto, fuggirne in maniera aerea.
Aria, acqua e aria.
Aria che dà respiro alla terra, la solleva e ne disperde la polvere.
La fa danzare, la rimuove per qualche secondo dalle sue responsabilità. Le apre il cielo.
Fuggire dai labirinti ma anche studiarli dall’alto, ammirarli, commuoversi e perdersi alla vista sublime del groviglio insolubile che si è.
Morirne di paura avere un attacco di panico sentire che è piu grande di te e ti possiede. Amare quel possesso. Desiderare lo smarrimento. Camminare sui muri, sui fili fragili del proprio pensiero,
dei propri sentimenti. Sui fili fragili della propria anima.
Essere funamboli di sé.
Labirinto e strategia. La tua carica magnetica.
Terra e acqua, sono. Le mie radici, nell’acqua.
L’acqua elemento nostalgico, ritorna sempre nei miei sogni.
Labirinto libero e aperto del mare senza regole e confini,
presenza liberatoria, pura, decorticante,
poi anche l’acqua dentro strutture, labirintica perché studiata,
si porta dentro sensazioni più angoscianti, riflettute
e con sé adombra presagi.
L’acqua, l’ossessione del liquido.
L’acqua di quando abbiamo fatto il bagno insieme. L’esitazione sempre prima di entrare completamente, prima del tuffo, la paura di lasciare andare il controllo e lasciar-si andare
dove non tocchi, senza difese.
Trovarsi ormai lì, ormai nell’acqua.
Quella volta, quando infine mi sono tuffata, ti ho guardato,
mi sono guardata intorno. Ero felice. Ero solo felice.
Nella mia mente ho colmato tutta la distanza acquatica che ci separava. Ci siamo sbirciati, adesso ti vedevo e tu mi vedevi.
Qualcosa di te si accumula attorno ai polsi, all’angolo degli occhi,
si annida in alcune espressioni.
In uno dei polsi hai l’orologio.
Il significato si coagula ancora di più e mi sconvolge.
Ti sei tuffato tenendolo addosso.
Portavi sulla pelle un orologio nel mare. Intanto, io ero felice.
Non eri spoglio dal tempo. Un tempo diverso, il tempo dell’acqua.
L’abbiamo teso e tirato come un elastico, ci è dovuto alla fine sfuggire di mano e rimbalzare addosso, chiudendosi su se stesso.
La violenza di quel rimbalzo mi rattrista.
Vorrei essere brava a sciogliere i polsi come le parole che scivolo qui.
Il mare è felice e l’acqua è proprio un elemento nostalgico.

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