Would it be a waste even if I knew my place? Should I leave it there?
Il 4 luglio in America si celebra il giorno dell’indipendenza.
Qui invece è il nono anniversario del mio orale di maturità.
Un’altra specie di dichiarazione di indipendenza.
Ho ripensato a quel professore che mi disse studia e vattene.
Non tornare mai.
Ma come si fa. Quando te lo dice uno dei professori migliori che hai avuto e che lo è proprio nel posto in cui si trova, è tutto pieno di quella terra ed è stata la sua scelta.
Tutte le persone che ti hanno fatto sentire uno spreco. Immagina di avere 17 anni e di conoscere esattamente a cosa appartieni. Quanto coraggio ci vuole in questo. Quanta solidità. E le persone, gli adulti attorno a te che ti dicono che sei uno spreco se segui quella strada perché puoi essere un ottimo qualcos’altro. Quando te lo dicono anche le persone che stimi, anche quelle che ami.
Ma lo spreco reale qual è? Non è sapere esattamente chi sei e guardare altrove? Inseguire una menzogna che un giorno fa piacere a qualcuno che crede di sapere meglio di te e il giorno dopo neanche si ricorda chi sei?
Ho ripensato con tenerezza a quell’adulto che mi disse qual è il massimo che puoi fare scegliendo lettere? Scoprire un nuovo manoscritto del Boccaccio. E anche quando, a quanti può interessare?
Criminali. Sono dei criminali le persone che trattano quello che sei in questo modo. E con estrema ingenuità, nessuna malizia. Proprio quella naïveté criminale. Poi ci sono anche gli altri, ci sono quelli che ti vogliono bene e pensano con amore di sapere cosa potrebbe renderti più felice nel lungo termine, pensano di vedere più in là di te e di conoscere meglio il mondo. Alcuni probabilmente lo conoscono meglio. Ma in quel momento non ti vedono, non ti conoscono più, ti trattano come se non avessero te davanti, ma la persona che vorrebbero che tu fossi e che ancora non è arrivata a quella consapevolezza.
Il punto non è naturalmente quello che puoi essere, ma quello che vuoi essere – tanto banale quanto vero. Con sufficiente determinazione si può diventare davvero tutto quello che si vuole. A quell’età sei una cellula staminale che sta cercando ed è in grado di sentire e individuare la sua identità. Quello che fa più male è vedere le persone che sai che ti hanno conosciuto, sai che ti hanno visto, dirti di considerare qualcosa di diverso da quello che sei. In fondo è giusto che te lo dicano, che ti facciano riflettere.
Ma mentre ti fanno riflettere tutti, perché loro non pensano a supportarti? A farti sentire la meraviglia di una scoperta di questa portata. Quante persone passano accanto all’esistenza senza sapere chi sono. Senza sapere a cosa appartengono. Senza riconoscersi. Perché mettere in dubbio l’eccezionalità di questa scoperta nella fragilità di chi l’ha appena fatta una volta per sempre? Essere in grado di stare vicino in quel momento alla persona che l’ha fatta è un privilegio indicibile. E chi non se ne rende conto si perde qualcosa di sé.
Poi ho ripensato anche a tutti gli altri. Quel professore che mi spingeva via da casa qualunque cosa dicessi per difenderla ma che anche mi aveva saputa ascoltare, anche se mi conosceva da poco tempo, non aveva trovato la mia scelta assurda, ma logica e amata. Poi gli altri che invece mi conoscevano da molto più tempo e mi avevano ispirata nei loro gesti, in tutte quelle maniere involontarie che parlavano molto più forte delle loro stesse parole. Qualunque cosa poi scegliessero di consigliare.
Sono passata davanti al liceo l’altro giorno. Era l’ultimo giorno di scuola e tutti i ragazzi, e le quinte in particolare, avevano festeggiato in cortile. Sulle scale il vento faceva rotolare i coriandoli rimasti a terra risalire in aria acchiappati dalla luce luccicavano delle risa sparse poche ore prima e delle lacrime silenziose di chi lasciava una casa che non avrebbe trovato altrove.
Eravamo tutti seduti in una stanza davanti a una persona seduta un po’ più lontano da noi dietro a un banco un po’ più largo del nostro e di un altro colore. Poi quella persona iniziava a disegnare mondi che si aprivano per non chiudersi più. Forse per questo quando entrava in classe tutti si alzavano e io continuavo a farlo anche dopo cinque anni, anche dopo che ci aveva detto che non c’era bisogno di farlo più.
Non è una questione di bisogno. Voglio stare in piedi quando entri tu. Voglio essere pronta e attenta. Non voglio perdermi l’ingresso in quei mondi. Le mani, la voce, e gli occhi. Vorrei che mi raccontasse questa storia. Com’è arrivato qui? So come ci sarei arrivata io. Voglio tornare indietro fino a sapere chi eri tu quando eri me.
Poi la festa a quell’alunna smarrita. La figlia prodiga. La professoressa che ha organizzato una festa per lei con i compagni di classe. Lei che già al primo anno se ne voleva andare, lasciare tutto e ricominciare da qualche altra parte. La professoressa che voleva farla sentire accolta e amata in quella comunità, che quel posto poteva essere sicuro, poteva essere casa sua. Che poteva starci bene. Per diverse settimane non era venuta e sembrava già avere mollato tutto, poi un giorno era tornata e per quella occasione si era fatta una festa per lei. Che era perduta ed era stata ritrovata. Anche solo per quel momento di qualche ora.
Gli insegnanti e la scuola alla fine sono questo. I coriandoli di una festa che vorticano in aria e ti si appiccicano addosso per darti un po’ di luce quando la terra ti tira giù e la polvere ti infesta i polmoni.

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